"Fare comunità": preghiera cenacolare o birrerie?
La permacultura esiste perché esiste la natura. La natura presuppone l'esistenza di due parti con interessi contrapposti: il cavolo e la capra, l'ecosistema naturale e la cittá. Alcune ecosofie vorrebbero cancellare o ignorare questa opposizione fondamentale.
Per contribuire a una interpretazione più approfondita della permacultura, è stato aperto questo sito, ispirato all'ignoto pensiero di Paperinik: «è interessante notare come una vera e felice autosufficienza di molti ecovillaggi in rete, vista dalla cittá somigli più a una disgrazia per la città e per l'economia tutta». Una verità scioccante ma dalle conseguenze numerose e visibili a tutti...
Spesso si pensa che per fare comunità o amicizia basti uscire insieme per le strade della città, fare una chiacchierata dopo pranzo o andare a mangiare allegramente la pizza insieme qualche domenica.
Non mi stupisco che una opinione così errata sia così diffusa oggigiorno, visto che anche i preti la pensano alla stessa maniera!
Un giorno andai come aspirante novizio in una certa congregazione religiosa cattolica.
Vi rimasi una settimana.
Quando dissi al confessore che le “pratiche di comunione” vissute lì dentro non erano paragonabili a quelle che ho esperito in mezzo a un occasionale e laicissimo cenacolo di preghiera, egli mi rispose: “Beh ci sono altri momenti per conoscersi: non parlavate mai tra di voi?”.
Certo, ma:
Socializzare non è conoscersi.
E conoscersi non è parlare.
Non credo di essere riuscito a far capire questo concetto a quel prete. E non so neppure se riuscirò a spiegarlo bene qui; è alquanto sfuggente, ma ci proverò lo stesso.
Quando tra i gruppi del RnS si prega insieme, certamente non si leggono preghiere altrui, neppure di santi o di papi molto famosi, ma si cerca di trovare la “propria parola”, e di gettarla lì subito in mezzo all’arena, proprio come viene in mente.
E’ esemplificativa di ciò la cosiddetta “preghiera in lingue”, canto a più voci più o meno accordate, che io personalmente trovo alquanto becero, ma che comunque ha una genesi metodologicamente interessante, visto che offre il “cartellino bianco” a quell’espressione individuale così respinta nelle moderne pratiche liturgiche, spesso belle ed ornate ma secche e dure come carta da parati.
Emerge dunque evidente la segreta “fonte” delle pratiche di preghiera del RnS.
Su questa traccia vengono percorse tutte le altre: canzoni scelte al momento, prediche “nature” – senza canovacci davanti agli occhi – emozioni fluide e brillanti, discussioni collegiali sulla bibbia non top-down ma left-right, orizzontali, ovvero PARTECIPATE (il "maestro" propone un passo e chiede ai commensali cosa significhi). Ognuno partecipa al processo di interpretazione del testo, pur affermandosi infine il punto di vista del “leone” della situazione, che non è detto sia sempre il prete o la guida del gruppo!
Questo è quanto ho conosciuto del RnS e del suo modo di concepire la “vita spirituale comunitaria”. Anche lì, è vero, continuano ancora ad esistere molti preconcetti e sovrastrutture che annacquano l’opulento elisir, ma la “nuova base” è promettente e segna una importante differenza rispetto al vecchio.
Infatti, nella congregazione che ho frequentato per 1 settimana – nella quale, diversamente dai belli ma sconclusionati gruppetti di preghiera settimanale del RnS, si abitava insieme come una sola famiglia – ognuno, purtroppo, leggeva per sé, ognuno pregava per sé, ognuno meditava per sé; prima della messa e dopo la messa ognuno viveva per sé.
Eravamo tutti in convento da mane a sera.
Un ideale ci aveva riunito insieme sotto uno stesso tetto attorno uno stesso tavolo a recitar salmi ad orari stabiliti, ma mancava una ATTIVITA’ realmente comune che potesse galvanizzare il legame del cuore, e questa attività non poteva essere la preghiera che pur facevamo con assiduità, perché tale preghiera era preconfezionata.
A parte qualche occasionale scambio di battute, l’unico vero momento di “comunione”, restava quello del pranzo e della cena, in cui tutti noi PARLAVAMO davvero liberamente del più e del meno, ma con una frittatina in bocca e un’appetitosa bistecca sul piatto, non restava molto spazio alla “iridescente sinergia dello Spirito Santo”.
Dopo il caffè ognuno si ritirava allegro nelle proprie stanze, e la speranza di una condivisione autentica, era affidata al destino, alla vita, alle sorti della storia e dell’amicizia.
No, quel frequentarsi non era conoscersi.
Ricordo di aver maturato – dopo una sola sessione di preghiera al RnS – la sensazione di “conoscere” perfetti sconosciuti, invece qui dopo una settimana di convivenza stretta me ne andai vedendo ancora gusci, rocce e ricci attorno a me.
Eppure, in realtà, parlavo! Si, a pranzo e a cena si apriva la bocca davvero.
Quando la lavandaia chiedeva se c’era roba da mettere in lavatrice, si parlava.
Quando avevo bisogno di una busta di plastica o di trovare un libro, si parlava.
Quando alla domenica, dopo la messa, prima del pranzo, ci ritrovavamo davanti alla tv a commentare ora questo ora quell’avvenimento… si parlava.
Quando spensi la tv per stare in silenzio e cominciai a parlare con il tale in ricerca accanto a me, noi parlammo.
Parlai anche col prete che da psicologo professionista ci teneva tanto a farmi parlare.
Tuttavia, tutto questo parlare, non era conoscersi.
Socializzare non è conoscersi.
E conoscersi non è parlare.
Quando si prega insieme senza la palla al piede di rosari in corsa contro il tempo, e si prevede... si attende e si pretende l’emersione dello spirito personale, l’altro viene “conosciuto-in-Dio”. Dio è stato in mezzo a noi vivo, poiché ci si è comunicati. Così facendo, sarà via via più facile comunicare coi membri del cenacolo. Anche senza parlare.